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MANIFESTO BRUTAL / Giungla Domestica

 

Che mondo in deserto giorno in sogno muta    

 

 

 

Questa lettura collettiva invita all’approssimazione. 

 

Non c'è un modo in cui leggere e il senso sfugge.   

 

Il microfono passa, prenditi il tempo che senti opportuno per continuare la lettura o per passare oltre.

 

 

Una piccola premessa, una forma di preludio. 

 

Riflettere su ciò che è domestico dopo l'esperienza che il presente ci ha fatto vivere è questione complessa. 

 

Le linee del privilegio si incastrano:

 

Dov'eri? Con cosa vivevi? 

E quanta paura? 

 

A questa frattura comune, nelle singolarità delle nostre vite, Manifesto Brutal aggiunge l'esperienza di una malattia forastica creatrice di tempeste tireotossiche che ci ha fatto e ci fa agitare. 

Nella domesticità delle notti infinite, la comodità mai troppa, la ricerca continua di comprendere le necessità del corpo dell’altra, le necessità del proprio corpo.

 

La cura di sé è arena per la danza e per la lotta.

Esercizio alla gioia, attitudine alle passioni tristi.

 

L'abituarsi alla chimica, al sintetico, alla nemesi medica, al flusso continuo del sapere su noi, tra noi, tra te e loro, tra te e noi, tra loro e loro.  

 

La coscienza imbrigliata al corpo. 

 

Manifesto Brutal è un canto tra le rovine a cui ti chiediamo di prendere parte. 

 

 

(per un) paesaggio tiroideo 
in sickness and study 

si possono impiegare 
molti anni terrestri 
per fare una muta 

radicare zampe perpetue 
ventose sensazionali 
che poggino a bacio su cose storte 
e camminino solo a forza di leva amorosa.

Mediando continuo assalto e normata prossemica. 

in sickness and study 

Io malata mi adoro e mi aberro. 
Io mostro incarnato 
dolente, maculato. 
Ho teso uno specchio di verdi ferite
mi riflettono aliena 
ma a un salto dal mondo 

in sickness and study 

Il tempo in cui la catastrofe è già avvenuta in cui ho girato capriola malferma 
su gambe fragole mature e muffa 

fine del corpo del ballo 
fine del corpo del senso 
fine del corpo che avevo scelto. 

in sickness and study

Poi un groviglio, un inciampo a scompiglio di virale ascesa nella città impietrita fine dei corpi possibili 
fine di respiri accessibili 
un incanto di Stato 
ha investito e adornato 
di carogne deviate 
l’intero apparato. 

in sickness and study 

scrivo vorace, spezzata al torace
scrivo cagna fremente 
scavata stracciando magre tane 
rifugi pneumatici che solo per svista figurano cose 
Scrivo di netto 
e chirurga all’abietto 

tengo un sospiro 
sulla punta del pube 
in equilibrio precario 
divaricato oblivio. 

È un tormento di specie 
disorientarsi sempre 
rimedio donna e pesce
 
e sangue e plasma 
e clorofilla e luce 
e un solo, piccolissimo appiglio in legno, 
per restare a galla. 
Ho scovato un rifugio 
che è fuga, 
finalmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E come fa un assembramento a diventare un avvenimento? 

 

Vale a dire Maggiore della somma delle sue parti? Una risposta può essere la contaminazione. Siamo contaminati nei nostri incontri; nel fare spazio agli altri cambiamo chi siamo. Mentre la contaminazione cambia progetti di creazione di mondi, possono emergere mondi reciproci, e nuove direzioni. Tutti hanno alle spalle una storia di contaminazione; la purezza non è un'opzione disponibile. Un aspetto prezioso della riflessione sulla precarietà è che ci ricorda che cambiare a seconda delle circostanze è la materia stessa della sopravvivenza.

 

Il richiamo del bosco putrefatto. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Considerando quanto sono comuni le malattie, quale tremendo cambiamento spirituale implicano, quanto sorprendenti, una volta che si spengono le luci della salute, siano i paesi sconosciuti che allora si scoprono, quali desolazioni e deserti dell’anima un leggero attacco di influenza porta alla luce, quali precipizi e prati cosparsi di fiori colorati svela un minimo aumento di temperatura […] e come al risveglio crediamo di trovarci in presenza di angeli e arpisti quando ci estraggono un dente e ritorniamo alla superficie nella sedia del dentista e confondiamo il suo «si sciacqui la bocca – si sciacqui la bocca» con il saluto della divinità che dal pavimento del cielo si inchina per darci il benvenuto – quando pensiamo a tutto questo e a molto altro ancora, e siamo frequentemente costretti a farlo, allora diventa davvero strano che la malattia non abbia preso lo stesso posto dell’amore, della guerra, della gelosia tra i più grandi temi della letteratura.».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nuvole. Casa.

 

Al di fuori, totalmente: qui noi

immaginiamo di essere, sempre. Ed Eccoci

al centro, d’un tratto. Sacri, splendenti nel buio. 

Ogni volta smarriti, quand’anche solo uno solo 

serbi memoria di noi, al di là d’un tempo.

Da anni e anni ai margini del sentiero in segreto si 

parla di noi. 

Che sensazione di piacere , viaggiare nella notte sui ponti

mentre giù dai locali riverbera: ancora umani, come noi!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel diario dell'otto  giugno 1931, Walter Benjamin riferisce di una conversazione avuta con Brecht circa i modi possibili di abitare. 

Benjamin racconta che in quella giornata cercava di spostare il dialogo con il drammaturgo dal piano dei princìpi, da quello dei concetti, verso quello dei «comportamenti», dell’etica cioè, per cui si finì a parlare naturalmente dell’abitare. 

Secondo Brecht esiste un primo modo di abitare, quello che lui definisce «coinvolgente», o comodellante, cioè quello che modifica l’ambiente e lo rende funzionale, in modo che colui che abita in questa maniera si senta sempre a casa sua, venendone a sua volta determinato funzionalmente. 

È l’abitare borghese, un abitare scenografico annoterà Benjamin. 

 

A questo modello sempre Brecht ne contrappone un altro, il suo, quello di sentirsi ovunque un «ospite», senza alcuna responsabilità verso le cose di cui fa uso e che può essere in qualunque momento congedato da queste stesse cose. È l’abitare che lascia il meno di tracce possibili del soggetto in un determinato ambiente e che è tipicamente quello del militante illegale, della clandestina, della fuggiasca . 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’indeterminazione ha una ricca tradizione legata al modo in cui gli umani apprezzano i funghi. Il compositore americano John Cage ha scritto una serie di brevi componimenti intitolati Indeterminacy, molti dei quali celebrano proprio incontri con funghi.  Cercare funghi selvatici, per Cage, richiedeva un particolare tipo di attenzione: attenzione verso il qui e ora dell'incontro, in tutte le sue contingenze e sorprese. La musica di Cage è interamente dedicata a questi qui e ora sempre diversi.

L'attenzione di Cage verso l'ascolto delle cose che accadono l'ha portato ad apprezzare l'indeterminazione. La citazione con cui ho aperto questo capitolo "Quale foglia?" "Quale Fungo?" è una traduzione di Cage di un haiku del poeta giapponese del XVII secolo Matsuo Basho, "mastutake ya shiranu ki no ha no hebari tsuku", che ho visto tradotto come " Mastutake; e su esso / la foglia di un albero sconosciuto". Cage decise che in quelle interpretazioni l'indeterminazione dell'incontro non era abbastanza chiara. Prima aveva deciso di tradurlo: "Ciò che è sconosciuto unisce fungo e foglia", che esprime bene l'indeterminazione dell'incontro. Ma poi pensò che la frase era troppo pesante.

Quale foglia? Quale fungo? ha il vantaggio di lasciarci quell'apertura tanto apprezzata da Cage nell'imparare dai funghi.

 

 

 

 

 

 

E ogni frase e sentenza che sia giusta (dove ogni parola è a casa, e prende il suo posto per sorreggere le altre, la parola non diffidente né ostentante, agevolmente partecipe del vecchio e del nuovo, la comune parola esatta senza volgarità, la formale parola precisa ma non pedante perfetta consorte unita in una danza). Ogni frase e ogni periodo è una fine e un inizio, ogni poema un epitaffio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esiste un’ecologia delle cattive idee, come esiste un’ecologia delle cattive erbe.

 

  

 

 

 

 

1. 

Ora, chi volesse dare una proiezione ortogonale della lingua, sarebbe preso per folle. La parola non è il tipo di oggetto che sottostà ai capricci dell’occhio: «le parole non sono arnesi» è quanto ammonito nei postulati della linguistica dei Mille Piani. «Eppure si danno ai bambini linguaggio, penne e quaderni come si distribuiscono pale e picconi agli operai». 

                                        

Ebbene qui è appena accaduto come se uno di loro, ormai adulto, fosse adesso costretto a tornare sui banchi di scuola per apprendere una nuova lingua. 

                                        

E confrontandosi con la nuova, d’un tratto cominci a temere la propria. 

                                

                        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Benjamin a sua volta espone un’altra dialettica dell’abitare: da un lato c’è quello che conferisce il massimo di abitudini e dall’altro quello che ne dà il minimo, entrambi passibili di divenire, ai loro poli estremi, patologie dell’abitare. Nel primo modo colui che abita diviene una «funzione» delle cose, una specie di appendice dei dispositivi. Nel secondo c’è l’abitare che si svolge contraendo il minimo di abitudini, l’«alloggiare», che è un abitare non solo precario ma distruttivo, poiché impedisce alle abitudini di formarsi semplicemente perché «spazza via progressivamente gli oggetti che ne costituiscono il punto d’appoggio».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È interessante che Heiner Müller, il quale nel suo lavoro di poeta e drammaturgo ha fatto esplodere insieme il lascito sia di Brecht che di Benjamin, abbia detto di sé «l’idea stessa dell’abitare non riveste per me una particolare importanza [...] Sono un uomo delle caverne, o un nomade [...] non riesco a liberarmi dalla sensazione di non appartenere a nessun luogo. Non esiste una casa per me, dal momento che non posso permettermi un castello, ma solo alloggi temporanei e luoghi in cui lavorare. All’appartamento di Berlino-est, un prefabbricato di nuova costruzione, tipico dell’edilizia della Ddr [...] mi legano associazioni piacevoli: è una casa che annulla il concetto di abitazione, di abitazione intesa come domicilio»

L'abitare non significa il fatto di essere domiciliato da qualche parte, un appartamento, una stanza, un tugurio, quel che sia, ma è il verbo che indica la condizione, cioè il come noi siamo nel mondo, il rapporto a sé e al mondo in quanto elaborazione di una forma di vita.  

 

                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma ne Benjamin né Brecht né Muller avevano posto la questione del genere, la questione femminista intorno al domestico, al dolce focolaio imposto sul corpo delle donne.   

            

 

 «La premessa politica del salario al lavoro domestico è il rifiuto dell’ideologia capitalistica che identifica la mancanza di salario e un basso sviluppo tecnologico con l’arretratezza politica e la mancanza di potere e, di conseguenza, presume che come donne dobbiamo passare attraverso nuove forme di sfruttamento per poter organizzare le nostre lotte».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHE GENERE DI BESTIA GIRONZOLA

INTORNO ALLE NOSTRE VECCHIE DIMORE

SOLO PER ASCOLTARCI PISCIARE?

IN QUEI POSTI DOVE ABBIAMO PISCIATO, 

IL GIAGUARO PASSEGGIA TRANQUILLAMENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

chi vuole intraprendere qualcosa contro il mondo esistente deve partire da questo dato di fatto: la vera struttura del potere è l'organizzazione materiale, tecnologica e fisica di questo mondo.

 

La vita quotidiana non è sempre stata organizzata.

 

Per riuscirci è stato necessario, innanzitutto, smantellare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per molto tempo credette di attraversare la foresta, avvolto da un vento caldo e inebriante che gli pareva soffiasse da ogni parte, scuotendo gli alberi quasi fossero serpenti, in una luce crepuscolare sempre uguale, seguendo una traccia di sangue appena percettibile su un terreno oscillante in modo uniforme, solo, a cercar battaglia con la belva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel corso dei primi giorni, delle prime notti - o forse erano solo poche ore - non poteva misurare il tempo senza vedere il cielo.

Alle volte si chiedeva cosa mai provocasse sotto i suoi piedi movimenti oscillatori simili ad una respirazione

E come era sottile la pelle che avvolgeva l'ignoto là sotto e per quanto tempo quel terreno l'avrebbe sorretto dallo sprofondare nelle interiora del mondo.

 

 

 

 

 

Se procedeva con più circospezione gli sembrava che la terra cedeva al suo peso come se venisse incontro al suo passo.

 

Aveva anche la netta sensazione che i suoi piedi si facessero più pesanti.

 

 

 

 

 

 

19

 

 

 

 

 

 

Non essendo riusciti a produrre dei computer capaci di emulare l'umano ci si è impegnati nel impoverire l'esperienza umana fino al punto in cui la vita può confondersi con la sua modellizzazione digitale.

C'è stato bisogno che il viaggiatore cedesse il posto al turista per immaginarsi che questo avrebbe accettato di pagare per percorrere il mondo come ologramma dal suo salotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Messo fuori scena, fuori sguardo, fuori specie. Quando le specie s’incontrano.

La lista delle “proprietà” dell’uomo dà sempre luogo, fin dall’inizio, a una configurazione.

Fuori dal proprio, entriamo in una relazionalità critica e decostruttiva.

questo gatto di cui sto parlando, che poi è una gatta...

 

Io sono la donna-gatto. Grazie alla mia testa possiedo più di un’anima. Riconoscete in me la vostra bestialità.

Il gatto vuole solo essere gatto. Era solo un gattino, dopotutto.

Tutta la questione dell’animale non consisterà tanto nel sapere se l’animale parli, ma se sia possibile sapere cosa significa rispondere e distinguere una risposta da una reazione.

Conversazione di gesti. Il gesto diventa sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io sono la donna-gatto. Grazie alla mia testa possiedo più di un’anima. Riconoscete in me la vostra bestialità.

Il gatto vuole solo essere gatto. Era solo un gattino, dopotutto.

Tutta la questione dell’animale non consisterà tanto nel sapere se l’animale parli, ma se sia possibile sapere cosa significa rispondere e distinguere una risposta da una reazione.

Conversazione di gesti. Il gesto diventa sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma,

il vocabolo “parola”?

Distinguere la possibilità di sapere da una possibilità. Distinguere una relazione da una reazione. Cosa risponderebbe a “significa”?

La Sfinge è sua cugina, e lui parla la sua lingua; ma il gatto è più vecchio della Sfinge, e ricorda ciò che lei ha dimenticato.

Invece, occorrerebbe riconoscere agli animali una “facilità” nel pronunciare lettere e sillabe.

Sphinx of the bent knee and curly lap, conquers of hairy sum- mits, nails peaks and pit-fall valleys. Guardian of the sleepers,

gong and scratch of the morning. Moth snatcher, egg lapper, cat napped, wood tapper, eyed latched, neat crapper. Fluff ball. Dun and Gammon. furr purr fuss buzz.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo tanti anni insieme, vi scambiate messaggi continuamente.

Le proposizioni non appartengono al linguaggio, ma al mon- do. Non hanno corrispondenza con la realtà, sono articolate. Fare

senso è articolare. Articoliamo, dunque siamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Smettere di leggere, dove non ci sono parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I rituali del saluto, la comunicazione incorporata. Fusa, naso, zampe, coda, orecchie.

 

 

 

 

Con occhi chiusi, i corpi vicini si sentono, e dicono. Il gatto mi viene incontro come questo essere vivente insostituibile che entra un giorno nel mio spazio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con tutti i peli del tempo.
Entra nello spazio del Mio. Mi invita a uscirne.

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